di Guido Montani
L’Unione europea è sempre più divisa: si è divisa sulla gestione della crisi economica tra sostenitori dell’austerità e sostenitori di politiche inflazionistiche; si è divisa sulla crisi in Ucraina; si è divisa sulle politiche dell’immigrazione e dei rifugiati; si è divisa sulla risposta da dare agli attacchi terroristici a Parigi. Il Regno Unito minaccia si uscire se non otterrà soddisfazione alla sua domanda di “meno Europa”. Quale Unione sopravvivrà alla sua strutturale incapacità di auto-governarsi?
Qui analizziamo il caso della minaccia terroristica, per mostrare che il tempo delle scelte difficili è venuto, in particolare quello di una difesa europea e di una seria politica della sicurezza: il vecchio ordine mondiale, costruito dopo la seconda guerra mondiale, si sta rapidamente decomponendo. Forse anche l’UE si avvicina alla fine del suo “secolo breve” com’è accaduto per l’Unione Sovietica.
Vi sono tre aspetti che devono essere chiariti per definire i lineamenti di una politica estera europea efficace: la portata mondiale della minaccia islamista, vale a dire l’uso politico della religione islamica; l’aspetto antropologico del terrorismo e la riforma dell’ordine mondiale necessaria per arginare il terrorismo globale.
Per quanto riguarda il primo punto è necessario ricordare che la jihad, la guerra santa, è una concezione intimamente connessa alla religione islamica, che sin dalle sue origini ha distinto la comunità dei credenti nel “regno della pace” (dar al-Islam) dalla comunità dei miscredenti (dar el-harb) o regno della guerra, così che ogni credente dovrebbe combattere, anche con le armi, per la creazione del regno universale della pace (l’Umma). Questa concezione dell’Islam è comune sia alla componente sunnita che a quella sciita: il leader religioso della rivoluzione iraniana del 1979, l’ayatollah Khomeini, ha affermato con chiarezza che “l’obiettivo finale non può essere altro che la creazione di una civiltà islamica, una Umma islamica” che includa tutte le nazioni e i paesi del mondo.
L’obiettivo di un nuovo ordine mondiale, che superi le artificiali divisioni in stati nazionali, imposte dalle ex-potenze coloniali alla comunità arabo-islamica, è dunque parte integrante della dottrina islamica. Tuttavia, occorre chiedersi come questa dottrina si sia tradotta in istituzioni politiche molto varie, più o meno tolleranti, nelle differenti fasi della storia, a partire dal medio evo, dopo le grandi conquiste dell’islam, dall’Africa, all’Europa, all’Asia centrale e orientale e, in seguito, nell’Impero Ottomano.
Qui dobbiamo ovviamente limitarci a considerare la struttura politica dell’ISIL, cioè del cosiddetto Stato Islamico, che combina con diabolica astuzia i fondamenti religiosi dell’Islam con l’uso spregiudicato delle tecnologie moderne, incluse ovviamente quelle militari, del terrorismo, e le istituzioni politiche, vale a dire l’amministrazione statale centralizzata, tipica dello stato nazionale moderno, compresa l’ideologia della conquista della supremazia mondiale.
In questo senso ha ragione Putin a paragonare il progetto dello Stato Islamico a quello di Hitler: l’obiettivo finale di entrambi era ed è la creazione di un nuovo ordine mondiale.
Per comprendere come questo progetto politico sia diventato possibile e rappresenti una minaccia all’ordine politico internazionale esistente fondato sui principi di Vestfalia è necessario risalire indietro nel tempo, non solo all’attacco dell’11 settembre 2001 agli USA, come fanno molti commentatori.
Il punto di svolta della politica mondiale coincide con il fallimento delle proposte di Gorbaciov di riforma dell’ordine mondiale. In effetti, il suo progetto politico, la Perestroika, non consisteva solo nella transizione dell’URSS da un’economia pianifica a un’economia di mercato e nella democratizzazione del sistema comunista, ma anche nella riforma dell’ONU, che sarebbe dovuta diventare l’istituzione per avviare il mondo intero verso il disarmo nucleare, lo sviluppo del Terzo mondo e la pace internazionale.
Con la disgregazione dell’URSS, è invece prevalso sia il nazionalismo delle diverse Repubbliche asiatiche ed europee sia il micronazionalismo etnico, che ha giustificato le barbare “pulizie etniche” nella ex-Jugoslavia. All’ordine della guerra fredda, nonostante la sua evidente natura conservatrice e imperiale, è così subentrata una fase di progressivo disordine internazionale, mitigato solo temporaneamente dalla illusione “della fine della storia”, cioè dalla affermazione di un ordine internazionale liberale governato dalla superpotenza superstite.
Nel Medio Oriente, dove le frontiere nazionali delineate da Sykes-Picot nel 1916 non hanno mai definito diverse identità nazionali, nel momento in cui è divenuto chiaro che la cappa post-coloniale tenuta in vita dal confronto mondiale delle superpotenze si era dileguata, non è stato difficile fare appello alle identità religiose della popolazione araba, tenuto anche conto del fatto che la rivoluzione khomeinista era già avvenuta da un pezzo. Naturalmente, la pretesa di creare un ordine mondiale sunnita non è compatibile con quella di un ordine mondiale sciita, così la guerra santa non viene combattuta solo contro i popoli non-islamici, come è evidente tra le fazioni in guerra nello Yemen, dove si fronteggiano Arabia Saudita e Iran.
Sul pericolo rappresentato dal terrorismo islamico per il futuro della vita civile, occorre ora spendere qualche parola sugli aspetti strutturali della natura umana, perché a volte si tende a considerare decisive le contingenti motivazioni psicologiche e sociali dei terroristi. Come avviene per i vulcani, la violenza sonnecchia a lungo nell’animo umano e convive a fianco della vita civile, per esplodere in alcune occasioni, con effetti micidiali, anche grazie all’uso delle moderne tecnologie di sterminio.
Già Leopardi (nelle Operette Morali, Prometeo), sulla base delle prime cronache di cannibalismo provenienti dall’America e dall’Asia, osservava che: “l’uomo barbaro, considerato in rispetto agli altri animali, è meno buono di tutti,” dove la barbarie è contrapposta alla civiltà. Tuttavia, osserva Leopardi, anche l’uomo civile a volte ricade nella barbarie, quando si lascia sommergere dal “tedio della vita,” ciò che oggi è denominato “nichilismo”, cioè il disprezzo per i propri simili, i valori e le istituzioni che li incorporano. Le regole della vita civile appaiono solo come una gabbia da cui evadere.
Considerazioni analoghe, ma riferite al mondo contemporaneo, sono proposte dall’antropologo indiano Arjun Appadurai*, che definisce come “identità predatoria” (predatory identity) l’idea con la quale “l’appartenenza nazionale è ridotta con successo al principio della singolarità etnica, così che l’esistenza della più piccola minoranza entro i confini nazionali è vista come un intollerabile deficit di purezza dell’intera nazione.”
Questa concezione è stata formulata per la prima volta dal regime nazista: “il progetto del germanesimo è stato definito in termini etno-razziali e la logica della purezza giocò un ruolo rilevante; una quantità di minoranze divenne oggetto di odio: omosessuali, anziani e infermi, zingari e, soprattutto, ebrei.” A questa concezione dei rapporti tra maggioranze e minoranze etniche, si accompagna la pratica del genocidio e del terrorismo. “Il terrorismo – osserva Appadurai – offusca la divisione tra militari e civili e crea incertezza circa il vero confine entro il quale è possibile considerare la vita civile come sovrana.” Pertanto il terrorismo non risiede nel DNA dell’Islam. Si è potuto osservare lo stesso fenomeno tra i militanti Sikh, i Baschi, i Curdi, i Tamil dello Sri Lanka e altre minoranze oppresse.
Il fenomeno delle identità predatorie è causato, osserva giustamente Appadurai, dalla crisi dello stato nazionale, come modello che ha consentito all’umanità (non solo quella occidentale, perché anche la Cina, l’India e il Brasile si considerano stati nazionali) di raggiungere lo stadio contemporaneo di civiltà, sebbene altamente imperfetto, proprio perché il modello politico rappresentato dallo stato mono-etnico o mono-culturale è inadeguato a una vita civile che si articola, per mille rivoli, entro uno spazio globale.
Gli stati nazionali moderni sono stati costruiti sul principio della sovranità assoluta per garantire, in primo luogo, la vita (la sicurezza) dei propri cittadini. Su questa base, hanno poi potuto svilupparsi le grandi correnti politiche del liberalismo, della democrazia e del socialismo. Tuttavia, lo stato nazionale è oggi divenuto una camicia di Nesso che imprigiona i cittadini entro spazi soffocanti, alle dipendenze di una classe politica nazionale spesso meschina, provinciale e corrotta.
Quando i miliziani dello Stato Islamico abbattono trionfalmente i confini territoriali decisi arbitrariamente da Sykes-Picot possiamo comprenderli: lo hanno fatto anche i federalisti, in Europa, prima che si decidessero a farlo i governi nazionali.
Vi è tuttavia una differenza sostanziale: in Europa l’abbattimento dei confini è avvenuto senza spargimenti di sangue. In Europa abbiamo abbattuto le frontiere nazionali per costruire l’avanguardia di una civiltà cosmopolitica, sebbene molto imperfetta, su scala regionale, entro la quale i popoli nazionali avrebbero potuto convivere pacificamente risolvendo le loro controversie mediante il diritto e non la forza militare.
Queste osservazioni ci consentono di affermare che una vittoria militare contro lo Stato Islamico, sebbene importante per arginare il fenomeno del terrorismo sprigionato dal polo Medio Orientale, non sarà certo sufficiente a estirpare del tutto il fenomeno delle identità predatorie, che si potrà riprodurre in numerosi altri casi e in altri continenti.
La radice dell’attuale crisi della civiltà costruita sullo stato nazionale si potrà superare solo andando al di là dell’attuale ordine internazionale, i cui principi istituzionali risalgono ancora all’ordine di Vestfalia, vale a dire l’equilibrio di potere tra stati nazionali sovrani.
Si tratta dunque di individuare un percorso, insieme politico e culturale, che abbia come meta finale la kantiana civiltà cosmopolitica. Ogni progetto politico deve definire con chiarezza un suo orizzonte ideale, perché l’azione politica non può basarsi su automi eterodiretti, ma su esseri umani con sentimenti, ambizioni, desideri e valori. Inoltre quest’azione deve partire dalle acquisizioni già esistenti, per svilupparne le potenzialità intrinseche.
Consideriamo ad esempio la solenne Dichiarazione (del 24 settembre 2012) dell’Assemblea generale dell’ONU sulla “Rule of Law”, cioè il rispetto dello stato di diritto entro gli stati membri e tra gli stati membri. Nel suo primo articolo i governi nazionali affermano il loro “solenne impegno al rispetto dei principi e degli scopi della Carta delle Nazioni Unite, il diritto internazionale e la giustizia, e un ordine internazionale basato sul diritto (la rule of law), che sono l’indispensabile fondamento di un più pacifico, prospero e giusto mondo.” Se poi si continua la lettura sino all’art. 41 è difficile dissentire sui contenuti della Dichiarazione.
Ma quando si legge l’ultimo articolo, il n. 42, non si può rinunciare a un moto di stizza, perché tutti quei buoni propositi sono lasciati “all’impegno volontario” delle parti in causa, cioè i governi nazionali. E’ come se i cittadini di una comunità politica lasciassero la decisione di mantenere l’ordine e la giustizia alla buona volontà di ciascuno: l’esito sarebbe la guerra di tutti contro tutti.
Questa Dichiarazione avrebbe dovuto suscitare i commenti indignati della stampa, degli intellettuali, dell’accademia. Purtroppo non è successo nulla: il dogma dello stato nazionale sovrano è un tabù che oggi pochi osano mettere in discussione. Eppure vi è una via per cominciare a rendere esecutiva (enforceable) quella Dichiarazione: basterebbe riprendere il percorso delle riforme internazionali iniziato prima della dissoluzione dell’URSS, ma poi lasciato cadere nell’oblio collettivo.
La via è stata indicata dal Segretario Generale dell’ONU, Boutros Boutros-Ghali nella sua Agenda for Peace, sottoposta al Consiglio di Sicurezza nel gennaio 1992, un lascito delle riforme internazionali promosse da Gorbaciov. L’Agenda propone una forza permanente militare al servizio dell’ONU per risolvere i casi di violazione del diritto internazionale. Se questa proposta fosse stata accolta, oggi, e in molti altri casi del passato recente, si sarebbero potuti evitare genocidi, massacri e attacchi terroristici. In ogni caso, si sarebbe potuto impedire subito la creazione su basi terroristiche di un nuovo stato come l’ISIL.
Si obietterà che quest’obiettivo politico può essere accolto solo per il futuro, ma oggi è necessario avere un progetto ben definito, subito attuabile, per sconfiggere l’ISIL. Esiste già una coalizione militare internazionale tra i paesi membri del Consiglio di sicurezza e si è alla ricerca di una formula politica per organizzare la regione in caso di vittoria. La creazione di stati su basi confessionali, come alcuni propongono, sarebbe disastrosa, perché istituzionalizzerebbe le molteplici tensioni religiose e culturali già esistenti.
La proposta più convincente è stata formulata da The Economist (21 Novembre, 2015) che propone: “la creazione di una federazione di stati in Siria e in Iraq, che dia a sunniti, sciiti, alauiti e curdi la speranza di una vita comune e governi rappresentativi.” La proposta di una federazione di stati decisa consensualmente dai popoli della regione è ragionevole, ma l’esperienza dell’interminabile conflitto tra israeliani e palestinesi dimostra che è difficile creare unioni di popoli se non cessa l’odio reciproco. Pertanto occorre mettere in conto un lungo periodo di transizione e di tensioni, che dovranno essere sopite e governate da una coalizione internazionale sotto l’egida dell’ONU.
La strategia della pazienza rivoluzionaria è stata ben illustrata da Amos Oz,** che ha combattuto coraggiosamente e con tenacia per favorire il dialogo tra palestinesi e israeliani. “Il fanatismo è più antico dell’islam, del cristianesimo, dell’ebraismo, più antico d’ogni sistema politico, più antico di tutte le ideologie – scrive Oz. E’ disgraziatamente una componente onnipresente della natura umana … L’islam moderato è l’unica forza che possa fermare il fanatismo islamico. Il nazionalismo moderato è l’unico in grado di mettere un freno a quello fanatico, tanto in Medio Oriente come altrove nel mondo. Ma per consentire ai moderati di uscire dalla tana e aver la meglio sui fanatici è necessario impiantare una speranza concreta di vita migliore e di soluzione ai problemi. Solo così la disperazione cede il passo e il fanatismo si contiene.”
Queste sagge osservazioni mostrano anche con chiarezza quel è il compito dell’Unione europea in politica estera. Le grandi potenze mondiali possono intervenire con la forza militare e vincere l’ISIL, ma non hanno un modello di organizzazione ragionevole da offrire per la futura convivenza civile nella regione. Il modello positivo, quello dell’integrazione tra i popoli di diversa cultura, fede religiosa e nazionalità lo può offrire solo l’Unione europea. E il principio fondante l’Unione europea, l’unità nella diversità, rappresenta anche un’anticipazione simbolica della civiltà cosmopolitica di cui l’umanità necessita per affrontare le drammatiche sfide esistenziali della pace internazionale, della difesa della natura, della lotta contro le ingiustizie e la povertà.
Tuttavia l’Unione europea non potrà giocare questo ruolo positivo sino a che i governi nazionali non rinunceranno a far prevalere i meschini e provinciali interessi nazionali nei confronti del bene comune europeo. Senza un progetto politico, l’Unione rischia di dissolversi drammaticamente e perdere significato agli occhi dei cittadini del mondo. L’Unione europea deve diventare uno stato federale.
Oggi, gli europei sono intimoriti dalle minacce terroristiche e si gettano nelle braccia dei partiti nazionalisti e populisti che offrono l’illusoria soluzione del ritorno al passato, chiudendo le frontiere e rifiutando l’integrazione con gli altri popoli.
Chi vuole costruire un futuro di speranza deve organizzare i cittadini in un grande movimento per chiedere ai responsabili della politica europea – la Commissione e il Parlamento europeo, il nucleo democratico dell’UE – di abbandonare ogni esitazione e di proporre subito un progetto di Unione federale europea.
I cittadini europei li seguiranno: la speranza può sconfiggere la paura.
* A. Appaduraj, Fear of Small Numbers. An Essay on the Geography of Anger, Duke University Press, London, 2006.
** A. Oz, Contro il fanatismo, Feltrinelli, Milano, 2015.