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Gli analisti che nelle prime ore davano Erdoğan per finito, i commentatori del giorno dopo che invece si dicono certi dell’ormai instaurata dittatura in nome della shari’a, l’incredibile numero di opinioni sprecate negli ultimi giorni, richiedono che venga fatta un po’ di chiarezza.
La Turchia è una Repubblica dal 1923, sorta dalle ceneri di un Impero Ottomano al collasso dopo la Prima Guerra Mondiale. Mustafa Kemal Atatürk, un militare che si era distinto in battaglia, grazie anche al suo carisma, riesce ad evitare l’atomizzazione della penisola anatolica e a mantenere un’unità territoriale che corrisponde all’odierna Turchia.

Erede del composito Impero, il nuovo stato si trovava a dover mettere insieme molte anime in tempo molto breve, anche a causa della grande arretratezza sociale ed economica che richiedeva interventi rapidi e decisi. Atatürk e i suoi scelgono di superare l’empasse creando in modo del tutto artificioso l’idea di nazione turca, fondata su eguaglianza e laicità: “Tutti i cittadini della Turchia sono turchi”, recita la Costituzione. I kemalisti, nel tentativo di accentrare il potere in modo definitivo, si adoperano per reprimere le differenze etniche (i curdi verranno chiamati “Turchi di montagna”) e religiose. Lo fanno sul piano culturale, chiudendo scuole religiose e imponendo il turco come unica lingua ufficiale; sul piano rappresentativo, mettendo fuori legge partiti di ispirazione regionalista o religiosa; sul piano del costume, imponendo abiti occidentali e mettendo al bando simboli esteriori che richiamassero un’identità etnica o religiosa specifica. Parte della rivoluzione kemalista consisteva anche nel dotare la Turchia di organi rappresentativi democraticamente eletti. Di fatto, però, le prime elezioni libere si sono tenute ben oltre la morte di Atatürk (1938), nel 1946.
Agli occhi occidentali, i provvedimenti di cui sopra sono stati vissuti con favore, come un tentativo di traghettare un paese mediorientale allo sbando nella modernità occidentale. Pochi si sono soffermati a chiedersi perché ci siano stati, nel corso dei primi settant’anni di vita Repubblicana (ma 40 di pluralismo) ben quattro colpi di stato militari. Si è detto che, tradizionalmente, l’esercito è stato depositario della laicità dello stato e che, quando è intervenuto, lo ha fatto a tutela di questo valore supremo. Nel 1960 il governo eletto di Menderes era inviso a parte della società turca per via delle sue aperture allo stile di vita più tradizionale che gli aveva garantito tuttavia l’appoggio di un’ampia base elettorale tra cui le comunità Nurcu di Sait Nursi, a cui si ispira oggi Fethullah Gulen. Negli ultimi anni del suo governo, Menderes si prodigò nel tentare di reprimere il dissenso e non rese difficile ai militare l’individuazione di un casus belli. Venne rimosso e condannato a morte per impiccagione, sentenza che attuata nell’isola prigione di Iramlı, che oggi vede Abdullah Öcalan come unico detenuto. Nel 1971, ancora una volta sono gli scontri tra l’ampia fetta di popolazione conservatrice, le sinistre radicali, i curdi e le altre minoranze che rivendicano un ruolo nel panorama politico turco, che fanno scegliere all’esercito di intervenire per ripristinare uno stato di normalità. Ancora, nel 1980, i militari presero il potere per contenere una situazione di violenza interna che stava diventando insostenibile. Nel 1997, nel cosiddetto colpo di stato soft, l’esercito ha intimato al Primo Ministro Erbakan di rassegnare le dimissioni, cosa che questo fece, perché le politiche del Governo apparivano essere troppo aperte nei confronti di islamici e curdi. Nel corso dei primi ottant’anni di Repubblica ogni voce che non fosse allineata con il pensiero kemalista è stata tacitata, talora in modo formale (messa al bando dei partiti, esclusione di una simbologia e di un linguaggio che tenesse conto delle diversità), talora in modo pratico (eliminazione fisica di persone, come il citato Menderes, sparizioni, lotta armata contro minoranze).
Con l’AKP di Recep Tayyip Erdoğan ha trovato spazio e voce una porzione di popolazione evidentemente maggioritaria (l’AKP ha ottenuto il 49,5% dei voti, oltre 23 milioni, alle ultime elezioni ed Erdogan è stato eletto Presidente a suffragio diretto con il 52% nel 2014), conservatrice per quanto riguarda i valori e che non aveva avuto modo di esprimersi in precedenza. La stabilità prodotta da un governo che gode di un ampio sostegno ha concesso alla Turchia di imporsi sul piano regionale e di impostare una politica estera a medio e lungo termine che le consentisse di espandere la propria egemonia culturale anche oltre i confini del Mediterraneo. Le ragioni del successo della Turchia di Erdoğan vanno ricercate non solo nel carisma personale del leader, ma anche nell’effettiva corrispondenza della guida politica con la realtà della società turca. Tuttavia, se in un paese con solide radici democratiche, la pace sociale sarebbe garantita dall’alternanza partitica e una sana competizione elettorale, in questo caso ci troviamo di fronte ad uno stato in cui le istituzioni tipiche della democrazia sono state imposte in modo autoritario e così anche le “regole del gioco”. Così, l’AKP si è gradualmente trasformato da partito del popolo a partito personale di Erdoğan e ha conosciuto negli ultimi anni un declino in termini di trasparenza, affidabilità e accountability. All’accrescimento del potere personale di RTE sono corrisposti un numero significativo di scandali legati alla corruzione, al malgoverno e all’uso privato della cosa pubblica. La restante metà della popolazione turca è sostanzialmente rimasta a guardare, frammentata tra nazionalisti, repubblicani, progressisti talmente in disaccordo tra loro da non riuscire in alcun caso a fare fronte comune contro l’AKP. Il fallimento del processo di pace con i curdi datato 2013, l’exploit del partito HDP (legato al movimento curdo) del 2015 e il successivo riavvio delle ostilità tra stato centrale e curdi nel sudest del paese, che ha portato a quella che ad oggi è una guerra civile silenziata e odiosa, hanno segnato il punto di non ritorno.
La situazione internazionale, in cui la Turchia si trova ad essere al centro di un contesto molto delicato e altrettanto confuso (la Russia e la Crimea da una parte, la crisi siriana e i rapporti con l’Unione Europea, i rapporti con la NATO da una parte e con Daesh dall’altro, i curdi di Siria che puntano alla creazione di uno stato autonomo nel Rojava) ha d’altra parte favorito la scelta da parte della comunità internazionale di non intervenire e, forse, di augurarsi che RTE facesse in modo di rimanere saldo al potere.
Le cronache di questi giorni riportano con un certo sensazionalismo di una possibile introduzione della shari’a nell’ordinamento turco, di donne alle quali verrà imposto il velo, di esecuzioni sommarie. Al di là del comprensibile timore nella popolazione, in particolar modo di quella parte di turchi sinceramente progressisti e spaventati dall’aumento di potere che il colpo di stato conferisce al Presidente, non c’è evidenza di una virata netta nella direzione di un radicalismo islamico in Turchia. Quello che più dovrebbe preoccupare è la purga laica, in nome dello Stato, iniziata ben prima del 15 luglio e che da cinque giorni si sta facendo sentire con brutalità non solo sulle forze armate, che verranno definitivamente epurate da ogni dissidente, ma anche nelle Università, nei Tribunali, nelle testate giornalistiche. Si tratta di un processo lungo, denunciato ben prima che prendesse forme e evidenze odierne, e che non è stato preso in seria considerazione dalle istituzioni competenti, in primis dall’Unione Europea. Le retate nelle sedi di media nazionali e locali (sono stati colpiti i maggiori quotidiani e reti televisive non filogovernative, in particolare dal 2013 ad oggi), l’incarcerazione di professori universitari per aver firmato un appello alla pace con i curdi, l’incarcerazione senza valido motivo di avvocati (che si trovano ancora in custodia), l’assassinio politico di esponenti del movimento curdo, l’assedio del sud est del paese e il silenzio sulle diverse centinaia di morti dell’area, la progressiva radicalizzazione di un linguaggio sessista e violento, l’invalidazione di elezioni in cui un partito progressista aveva superato l’altissima soglia di sbarramento (10%), le violenze ripetute della polizia contro i manifestanti pacifici, sono tutti segnali che potevano e dovevano essere evidenziate e discusse sia nelle sedi istituzionali europee e nazionali, sia da un’opinione pubblica che dovrebbe godere di un’informazione informata, anziché di un sensazionalismo che confonde, impaurisce e, soprattutto, incanala le energie propulsive della società civile verso sforzi vani.

Autore
Monica Callegher
Author: Monica Callegher
Bio
Monica Callegher è laureata in Politica ed Economia del Mediterraneo presso l’Università di Genova. Attivista per i Diritti della Donna è membro di diverse associazioni in Italia e in Turchia. Il suo interesse di ricerca è prevalentemente legato ai femminismi in area musulmana e al loro impatto sulle istituzioni.