di Salvatore Sinagra
Venerdì tredici novembre, sono a letto, cerco di prendere sonno, tra poche ore, non saranno nemmeno le sei del mattino, prenderò un taxi che mi porterà in stazione per andare a Roma ad un impegno politico. Mia moglie mi chiede di non partire perché ha appena appreso che a Parigi, in un balordo venerdì sera, in una serie di attentati i terroristi dell’ISIS hanno fatto oltre cento vittime e forse il prossimo obiettivo sarà Roma.
Io poche ore dopo prendo il mio taxi in direzione stazione, mi tocca ascoltare gli sproloqui di un tassista che farebbe meglio a tenere lo sterzo invece che mostrarmi video di presunti complotti in cui americani, israeliani e arabi tutti insieme mirano a distruggerci; a un certo punto vediamo un gruppo di venditori di rose probabilmente pachistani, lui esclama “dovremmo ucciderli tutti e buttare una bomba atomica sull’India per vendicarci dei marò”. Io replico solo che probabilmente i venditori di rose sono pachistani e l’India e il Pakistan hanno la bomba atomica, l’Italia no. Arrivo in stazione, ci sono un centinaio di persone ai binari ma c’è silenzio. E’ normale alle sei del mattino. Ciò che non è normale è che in un posto dove di solito tutti vanno di fretta e se non vai di fretta anche tu rischi di esser spinto per terra da uno che vuole sorpassarti incontri tanti sguardi attoniti, tanta gente che abbozza un sorriso appesantito, in cerca di una reciproca consolazione, spinta da una voglia di essere comunità. Il treno arriva puntuale a destinazione, fino alle quattro si discute, di Parigi e non solo, emergono convergenze e dissensi, si vota. Alle cinque sono con un gruppo di amici a Piazza del Popolo, ad un presidio di solidarietà.
L’attacco a Parigi è un atto di barbara ed inaudita violenza contro un modello di convivenza delle diversità in un sistema di regole accettate da tutti, è un attacco contro l’ideale di un mondo senza guerra che ha portato i padri fondatori della nostra Europa all’idea di una Casa Comune Europea. E’ una minaccia alla storia senza la guerra in casa degli ultimi settant’anni di un continente, o meglio ad una larga parte del continente. Oggi più che mai bisogna smetterla di derubricare i Srebrenica e l’Ucraina ad incidenti di percorso e prendere atto che se tolleri la guerra poco oltre l’uscio di casa rischi che la guerra ti entri in casa.
L’Europa vive un periodo buio, non è il primo e forse non sarà l’ultimo. Parigi è di nuovo il paradigma dell’Europa. Oggi, come nelle ore di Charlie Hebdo non ho potuto non ripensare a quando da bambino continuavo ad ascoltare un discorso di Charles De Gaulle che da Londra parlava al suo paese. Non ho potuto non pensare a quell’immenso “Paris, mon Paris” con cui si apriva il suo discorso. Non ho potuto non pensare a quei grandi uomini che ci hanno fatto voltare pagina dopo le barbarie del nazifascismo: a quelli come Monnet, Schumann, Spinelli e Brandt con cui condivido tutto e quelli come De Gaulle, da cui mi sento diviso dalle idee politiche ma unito dall’ideale di una società di donne e uomini liberi. L’ISIS non ha capacità militari neanche lontanamente comparabili alla Germania di Hitler, ma dopo il 1989 la guerra è cambiata, e le guerre asimmetriche in cui sono coinvolti attori non statali, vere e proprie internazionali della violenza, sono dannatamente difficili da combattere. Hai un nemico forse non troppo potente ma che non vedi. Eppure credo che come abbiamo vinto sette decenni fa possiamo vincere anche oggi.
Sarà utile una vera politica di difesa e sicurezza europea, a partire da un esercito e da servizi segreti europei, sarà ancor più utile una vera politica strutturale europea e se la nostra priorità è la lotta al terrorismo dovremo farla anche quando ci costringerà ad utilizzare meno le nostre automobili. Dovremo essere capaci di dire what ever it takes anche quando ci confronteremo con governi che è un eufemismo definire ambigui come quello saudita e quello turco, dovremo riportare i nostri ideali nelle periferie degradate d’Europa, a partire dalle banlieue dell’esclusione di Parigi e Bruxelles che probabilmente non sono neanche quelle più povere d’Europa; la povertà è sempre degrado, ma il peggior degrado spesso cova in posti dove non vengono messi in dubbi i bisogni primari legati alla sfera fisica, ma quelli legati alla necessità di stima, di realizzazione e di identità.
Ma prima di ogni cosa, parafrasando Alexander Langer, dovremo continuare in ciò che era giusto. Continueremo a prendere treni ed arei, continueremo a spostarci per lavoro o per altri motivi, continueremo ad andare nelle piazze, continueremo a parlare con la gente, continueremo ad andare a cena fuori ed ai concerti, continueremo a mandare i nostri figli a studiare all’estero, continueremo a sentirci europei.
Certo non potremo non essere tristi per le donne e uomini che non ci sono più, per quelle vite che non siamo riusciti a salvare, ma saremmo sicuramente più tristi se rinunciassimo ad essere noi stessi. Dobbiamo nelle nostre piccole azioni costruire un mondo aperto come quello che rappresentavano Valeria e le altre vittime degli attentati di venerdì, non il mondo della paura per cui sta lavorando Al Baghdadi.