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Europa in Movimento

| Verso un'Europa federale e solidale

di Matteo Valtancoli *

Parigi, COP 21, dicembre 2015.

Saranno giorni da ricordare, giorni in cui gli stati riuniti nella conferenza internazionale sul clima si sono resi conto che il problema climatico è concreto e cogente. Questa presta di coscienza è stata quasi univoca: infatti sono da segnalare due posizioni dissonanti. Quella degli Emirati Arabi, in parte comprensibile dato che grossa parte del loro prodotto interno lordo deriva dal commercio di greggio e quella del Senato americano, a maggioranza repubblicana, che sebbene veda come “paesi canaglia” molti dei maggiori produttori petroliferi del mondo è sempre molto propenso al loro finanziamento attraverso una politica energetica pro carbon.

Proprio il ruolo degli USA è stato molto ambiguo: infatti se il presidente Obama la mattina dava grandi aperture verso una riconversione ecologica dell'economia lo stesso pomeriggio il Senato americano smentiva tale posizione. Basti ricordare che negli stessi giorni il Senato ha respinto una proposta democratica mirata alla limitazione della vendita delle armi ai sospettati di terrorismo internazionale.

In maniera similare anche la COP21 ha stralciato una norma presente nelle prime bozze di documento uscite nella notte tra martedì 8 e mercoledì 9 dicembre che prevedeva sanzioni contro quei paesi o aziende che compravano greggio dalle organizzazioni terroristiche, ISIS per prima, forse anche perché le azioni di vendita illegale di greggio, unite alla bassa domanda derivante dalla crisi economica, tengono il prezzo del barile ancorato a cifre da prima metà degli anni 90, ovvero 45€ contro i 130-150€ di una situazione “normale”.

Gli Stati uniti si sono di fatto presentati al tavolo della COP21 come un paese profondamente diviso e più indaffarato nelle proprie dispute interne che a giocare quel ruolo guida che ha giocato nel secolo scorso, autorilegandosi a potenza regionale al traino di chi detiene il proprio debito pubblico.

La posizione europea purtroppo non si poteva dire di maggiore forza: infatti se almeno gli USA parlavano attraverso una delegazione a rappresentanza della federazione degli Stati, l'UE era rappresentata dalle singole delegazioni degli Stati nazionali ognuna delle quali non più grande di una provincia cinese.

In questo scenario diplomatico disarmante per quello che veniva definito primo mondo la domanda cruciale è: chi veramente gioca la parte del leone tra gli Stati presenti alla COP21?

Sicuramente il ruolo forte è stato quello della Cina che ha rimarcato il suo primato di nuova potenza mondiale, ma anche i ruoli di India, Russia, Brasile sono stati fortemente incisivi sui negoziati sia per numero di cittadini rappresentati, per PIL, compattezza politica e non da meno visione del futuro.

Ma prima di analizzare i punti cruciali del documento finale occorre fare un passo indietro alle dichiarazioni dei capi di Stato prima del vertice, abbastanza vaghe da parte delle nuove potenze planetarie e molto decise dei cosiddetti paesi sviluppati che quasi all'unisono hanno lanciato il monito: “se gli accordi non sono vincolanti Parigi sarà un fallimento!”. Quindi dal documento finale gli accordi sono vincolanti?

In apparenza si, ovvero l'impegno è quello di mantenere entro 1,5 C° l'innalzamento della temperatura globale entro la fine del secolo, ma di demandare a ogni Stato il metodo per compartecipare a tale risultato. Quindi ogni Stato deve presentate un suo piano per contenere la temperatura, ma se poi non lo rispetta? Nulla, fa niente non ci sono né sanzioni né meccanismi di costrizione; persino la “commissione di vigilanza” non è un organismo indipendente, ma sotto l'egida delle Nazioni Unite, sena alcun potere sanzionatorio e un potere ispettivo limitato alle concessioni che gli Stati nazionali vorranno fargli.

Per fare un paragone comprensibile è come aver messo in un centro urbano un limite di 30 km/h, ma decidono gli automobilisti dove mettere gli autovelox e anche nel caso questi scattassero una foto di un auto che va a 90 km/h, ovvero tre volte il limite, nessuna multa sarebbe recapita a casa del conducente indisciplinato.

Ora è facile intuire come senza sanzioni e controlli adeguati qualsiasi di conducente di Stato possa fare promesse, magari anche molto ambiziose e elettoralmente stimolanti, ma con la stessa concretezza delle parole al vento.

Questo è tanto più vero per quei paesi che hanno vissuto la rivoluzione industriale e il progresso post bellico degli anni 50, che hanno lasciato in eredità una mentalità fortemente legata all'era del carbone e un comparto industriale tecnologicamente vecchio e di difficile ammodernamento: ne sono un chiaro esempio l'eccesso di centrali per la produzione elettrica italiana, che arrancano sempre di più all'aumentare delle energie ecocompatibili.

Per i nuovi paesi emergenti la situazione è più variegata: se da un lato c'è la Cina con ancora importati giacimenti minerari di carbone, dall'altra parte troviamo paesi come il Marocco, privi di queste risorse, che sta costruendo un campo solare capace di servire l'intero nord Africa e probabilmente una parte dell'Europa.

Il secondo punto chiave della conferenza, sbandierato anch'esso come una vittoria, è quello legato ai finanziamenti che le regioni sviluppate devono conferire a quelle più povere per lo sviluppo sostenibile, cifra stimata in 100 miliardi di euro all'anno, ma solo dal 2020 (mancano ancora 5 COP) e con una ripartizione da definire in fase di rettifica a New York il prossimo 16 aprile. Se il risparmio energetico con la sostituzione dell'illuminazione pubblica con sistemi Led nella sola, piccola, Italia vale 5,5 miliardi di investimenti, oltretutto rientrabili in 6-7 anni, possiamo comprendere bene come la cifra di 100 miliardi, che pure sembra imponente, sia in realtà poca e misera cosa.

Il terzo punto all'ordine del COP21 è sia di natura economica, ma soprattutto morale.

Gli Stati nazionali hanno riconosciuto i cambiamenti climatici e la responsabilità diretta degli stessi nell'attività antropica, in particolar modo in quella generata nelle aree a maggiore sviluppo dalla seconda rivoluzione industriale in poi; inoltre hanno confermato che tali mutamenti hanno un'azione determinante nelle catastrofi naturali che sempre più sovente vediamo compiersi in tutto il pianeta, devastando territori, proprietà e persone senza conoscere né confini né divisioni poste in essere dall'uomo, proprio come l'inquinamento. Perso atto del riconoscimento di tal stato delle cose, i paesi più esposti ai danni, spesso poverissimi e densamente popolati avanzavano due richieste che almeno nella prima bozza sembravano essere state accolte:
1) Il pagamento dei danni qualora la catastrofe fosse attribuibile a tali fenomeni.
2) Il riconoscimento dello status di Rifugiato Ambientale.
In parole semplici hai fatto il danno? Lo paghi e ti tieni i cocci!

Andiamo a fondo ai due punti. Il primo è potenzialmente rivoluzionario poiché i danni sarebbero paragonabili alle sanzioni di guerra per danno arrecato e potenzialmente avrebbe, attraverso di tribunali internazionali, moltiplicato esponenzialmente quella cifra di 100 miliardi di impegno degli Stati sviluppati in favore di quei paesi, che sono già a sapore di “risarcimento danni”.

Il secondo dei punti non è da meno: infatti si evince da innumerevoli studi internazionali, non ultimo il rapporto sui migranti delle Nazioni Unite, che 1/3 delle persone a oggi in fuga dai territori di origine è nei fatti un migrante ambientale. Potenzialmente il vecchio continente, qualora fosse passato tale riconoscimento, avrebbe dovuto accogliere tra i 30 e i 40 milioni di persone nel prossimo decennio. É stato stimato che la sola unione dei casi delle Filippine e del Bangladesh, al ritmo attuale dovranno spostare oltre 100 milioni di persone per allagamento dei territori dovuti all'innalzamento dei mari nei prossimi venti anni; una cifra simile dall'Africa verso l'Europa a causa di guerre per il controllo del greggio e delle risorse minerarie, accaparramento delle terre e dell'acqua per colture intensive e desertificazione.

Di tali richieste che costituiscono il cuore della questione morale dei cambiamenti climatici, poiché su di essere si basa la vita di quasi 1/3 della popolazione mondiale, non v'è traccia nel documento finale della carta di Parigi.

Il mondo è un malato grave, la verità scomoda non più eludibile. La carta di Parigi un pannicello caldo per placare la febbre quando servirebbero massicci antibiotici. Dunque per i “grandi” del pianeta chi salverà il mondo?

La scomoda e sconcertante risposta è contenuta nel ruolo giocato dalla lobby in quel luogo alle porte di una Parigi ferita e spaventata da sanguinari e vigliacchi attentati del 13 novembre.

Le multinazionali della finanza, dell'industria e dei settori primari sono state inviate, come nello spirito del '92 a Rio, a essere portatori di interesse o se volete osservatori dialoganti con i decisori politici al pari delle ONG, delle associazioni ambientaliste e delle lobby delle energie rinnovabili. Chiamate a portare democraticamente il loro punto di vista, magari a suggerire soluzioni per l'evidente stato delle cose. Queste multinazionali, spesso con fatturati superiori a quelli degli Stati più poveri, tra la prima e la seconda bozza non sedevano più al tavolo degli osservatori, ma chiamate a portare il loro contributo nella stesura diretta del documento finale, proprio come Barilla ha di fatto ispirato, o stilato per essere più precisi, la carta di Milano per Expo 2015.

Con tali contributi non c'è stato poi da meravigliarsi che la carta di Parigi demandi di fatto al mercato e alle multinazionali la soluzione del problema climatico, privatizzando di fatto il salvataggio del pianeta non come riconversione democratica dell'economia, ma come pianificazione finanziario / industriale della stessa.

sulla metro di Parigi

Il pensiero che fino a qui ha tentato perlomeno di riportare una oggettiva analisi dei fatti trova una naturale biforcazione, poiché se da una parte la coscienza della possibile catastrofe che da tempo sta mostrando i sui larghi confini all'orizzonte, porta a un banale “se funziona va bene” dall'altra il problema di chi vi scrive ha un nome preciso scolpito nel profondo che si chiama democrazia.
Il governo dei cambiamenti climatici il loro controllo e la mitigazione degli effetti non è una mera pianificazione di produzione, in esso non c'è solo una serie di passaggi meccanici e scientifici, ma anche e soprattutto un'insieme di decisioni politiche a partire dalla più banale e terrificante: chi vive e chi muore?

Prima delle crisi le lobby sia quelle che potevamo giudicare come “cattive”, per esempio quella delle armi, o positive come quella dei pannelli solari, spingevano attraverso finanziamenti o dichiarazioni uomini rappresentativi a difendere i loro interessi a capo degli Stati o nei parlamenti nazionali, così che un cittadino potesse decidere da che parte stare dato il modello di futuro proposto. Ora alcune di loro non si vogliono far rappresentare per delega, sono passate oltre la rappresentazione democratica, e vogliono eleggere loro stesse nella “stanza dei bottoni”, proprio come Donald Trump o Silvio Berlusconi si candidano al governo degli Stati, oppure stilano i trattati internazionali come la carta di Milano o quella di Parigi, trattati che demandano a loro stessi il potere della scelta.

A Parigi abbiamo portato un documento, un pensiero federalista ispirato dalla storia di libertà, solidarietà, fratellanza che proponeva l'abbattimento delle barriere nazionali per risolvere il problema dei cambiamenti climatici che minaccia la vista stessa dell'uomo sul pianeta, per la creazione di un’alta autorità indipendente, dotata di risorse finanziarie proprie derivati da una carbon tax mondiale, sul modello della CECA affiancata da un’assemblea parlamentare (primo passo verso un futuro parlamento mondiale, proprio come lo è stata l’assemblea parlamentare della CECA nei confronti del primo Parlamento europeo eletto a suffragio universale diretto nel 1979. La prima riunione dell’assemblea fu presieduta e introdotta dal forlivese Alessandro Schiavi in qualità di decano), capace politicamente di assumere quelle decisioni fondamentali al fine della salvaguardia dell'esistenza di tutti.

Abbiamo portato, come tante altre organizzazioni e con grande umiltà, idee in grado di coniugare benessere, sviluppo e clima, abbiamo cercato dentro e fuori i tavoli del potere di diffondere queste idee e abbiamo visto negli occhi dei tanti giovani che manifestavano, in chi proponeva un'idea di innovazione, in chi dibatteva fino a tarda notte sul futuro del pianeta, in tutti quegli occhi abbiamo visto una luce, una speranza per il futuro.

Poi abbiamo visto gli occhi stanchi di una classe dirigente incapace d'assumere quel ruolo politico globale necessario al fine di governare, li abbiamo visti dividersi anche dentro loro stessi fino al punto da vederli chinare il capo e, forse non a caso, a Parigi farsi decapitare dalla lama del mercato, abdicare e delegare la più grande sfida del nuovo millennio ad altri.

Forse a Parigi il 12 dicembre 2015 siamo stati testimoni di un evento storico: il passaggio dalla democrazia degli Stati all'oligarchia dei mercati, dove tutto è un bene disponibile, anche la vita, ma se siamo democratici e crediamo in un'ideale ugualitario in cui ogni persona, ogni federazione, ogni etnia, non sia migliore di un'altra e abbia lo stesso diritto alla vita, a tale abdicazione non possiamo sottostare continuando a difendere la democrazia e proporre in ogni luogo, con tutte le forze che abbiamo, il superamento delle barriere nazionali per giungere alla federazione mondiale e all'unità politica del genere umano, l'unica via capace di realizzare l’ideale kantiano della pace perpetua.

Matteo Valtancoli

* il video di Matteo Valtancoli con il resoconto sulla COP21

 

Autore
Matteo Valtancoli
Author: Matteo Valtancoli
Bio
Matteo Valtancoli classe 1982 designer della comunicazione impegnato nel terzo settore membro attivo del MFE delegato regionale Emilia Romagna per la sezione di Forli. Membro del direttivo dell'Istituto di studi sul federalismo e l'unità europea, Paride Baccarini.
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