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Europa in Movimento

| Verso un'Europa federale e solidale

Marcia per l'Europa, 25 marzo 2017 - Piazza Bocca della Verità - Album della GFE

Chi ha partecipato alla Marcia per l’Europa del 25 marzo, organizzata dal MFE-UEF, non può non aver notato una grave contraddizione: in piazza e in strada vi era una folla di cittadini europei, fieri di esserlo, con una foltissima maggioranza di giovani, molti parlamentari europei, specialmente del Gruppo Spinelli, e un impressionante numero di altre organizzazioni della società civile. Tutti chiedevano la Federazione europea, una Costituzione europea e un Governo europeo. Nel frattempo, in Campidoglio i 27 Capi di Stato e di Governo sottoscrivevano, sotto i lampi dei riflettori, una Dichiarazione per celebrare i 60 anni dei Trattati di Roma, in cui si impegnavano solennemente a rispettare i valori fondanti dell’Unione europea e avanzavano generiche promesse sul suo futuro, compresa quella di ‘dare ascolto e risposte alle preoccupazioni espresse dai nostri cittadini’.

 

Tuttavia, se questa preoccupazione fosse stata sincera, perché un rappresentante dei 27 governi non è venuto a salutare i cittadini europei in piazza? Vale la pena di ricordare che a Maastricht, l’8 dicembre 1991, quando era in vista una profonda riforma dell’Unione europea, il Presidente della Commissione europea ha partecipato alla manifestazione organizzata dall’UEF pronunciando un impegnativo discorso sul futuro dell’Europa. Il giorno dopo, The Times, intitolava la sua prima pagina, a grandi caratteri, così: ‘Delors sets out EC path to union. Federalism is not a pornographic word’.

Oggi, per gli attuali capi di stato e di governo – e anche per alcuni esponenti delle istituzioni europee – ‘federalismo’ sembra una parola sporca, politicamente impronunciabile, fuori dal tempo. Eppure se questi leader politici intendono condurre l’Unione al di fuori del cul de sac in cui essi stessi l’hanno ficcata, dovranno prima o poi pronunciare quella parola. Una sommaria ispezione alla loro pomposa Dichiarazione di Roma rivela almeno due lacune vistose che, se non verranno colmate, potrebbero causare il fallimento dei loro deboli intenti riformatori.

Il paragrafo della Dichiarazione in cui i 27 sembrano assumere un impegno sulle loro reali intenzioni è quello riguardante la cosiddetta Europa a due velocità: ‘Agiremo congiuntamente, a ritmi e con intensità diversi se necessario, ma sempre procedendo nella stessa direzione, come abbiamo fatto in passato, in linea con i trattati e lasciando la porta aperta a coloro che desiderano associarsi successivamente. La nostra Unione è indivisa e indivisibile’. Si tratta di un impegno vago, che lascia indeterminati gli sbocchi del percorso: cosa significa la ‘stessa direzione’? Verso quale obiettivo si vuole andare? Se è una direzione che deve avere l’accordo di tutti i 27 allora significa che non si intende abolire il diritto di veto, ma lasciare le cose come stanno. Se ci si riferisce alla possibilità di utilizzare le cooperazioni rafforzate, già previste negli attuali trattati, allora non si comprende perché non abbiano agito prima, perché è proprio con gli attuali trattati che hanno provocato la rivolta dei cittadini. E’ quest’Unione che è stata incapace di reagire alla crisi finanziaria, che si dimostra incapace di gestire la crisi migratoria ed è altrettanto incapace di far fronte alle sfide internazionali, in Medio Oriente, contro il terrorismo e contro il pericolo di un collasso dell’ordine economico e politico internazionale.

La parola sporca che i governi non vogliono pronunciare è governo democratico europeo oppure governo federale europeo. Sul problema della democrazia europea la confusione è tanta, anche fra gli intellettuali. Ad esempio, Lorenzo Bini Smaghi scrive (Il Sole-24 Ore, 29/3/2017): ‘E’ la democrazia che regge la UE’, ma per democrazia intende che tutti i 27 paesi dell’UE sono democratici, non che il Consiglio Europeo, in cui si sono prese e si continuano a prendere decisioni rilevanti per il futuro dell’UE, sia un organo democratico, un governo democraticamente responsabile verso un Parlamento e i cittadini. Il Parlamento europeo non può opporsi alle sue decisioni, con grave pregiudizio per il controllo democratico dell’Unione da parte dei partiti europei e dei cittadini, il cui voto conta ben poco. In effetti, l’elezione europea è stata sinora dominata da problemi nazionali, paese per paese. Nella campagna elettorale europea non si sono mai discusse le linee essenziali di un programma di governo dei partiti europei. A questo proposito, la questione cruciale – una questione che riguarda nello stesso tempo, sia la democrazia europea sia la capacità d’azione di un governo europeo (la Commissione, presumibilmente) – è quella del bilancio dell’UE e delle sue risorse proprie.

La crisi finanziaria e del debito pubblico, scoppiata nel 2010, non avrebbe avuto gli esiti disastrosi in termini di disoccupazione, povertà e recessione, se l’UE avesse avuto a sua disposizione un bilancio sufficiente a impedire la grave divergenza che si è manifestata tra paesi Mediterranei e del Nord, arrivata alle soglie dell’espulsione della Grecia dall’UEM. Nessuna unione monetaria al mondo esiste – e può sopravvivere – senza un’adeguata unione di bilancio. L’unione monetaria è indispensabile all’unità e alla stabilità del mercato, ma la convergenza tra regioni ricche e povere la può fare solo un’unione fiscale. Ebbene, la cruciale riforma che i governi devono mettere in cantiere è un’unione fiscale, finanziata con risorse proprie. E risorse proprie, al contrario di quanto pensano alcuni tecnici, non significano risorse dei bilanci nazionali trasferite all’Unione. Significa che le risorse fiscali che i cittadini versano all’Unione vanno direttamente nelle casse del Tesoro europeo. La sovranità fiscale dell’Unione deve essere limitata solo da norme della Costituzione europea, non dai veti degli stati membri. Per questa ragione unione fiscale e democrazia europea vanno di pari passo. Il governo europeo dovrà rispondere dell’impiego delle risorse solo nei confronti dei cittadini europei, dunque di un Parlamento europeo bicamerale (come in tutte le federazioni) che li rappresenta.

La mancata indicazione di un governo democratico europeo dipende anche dalla seconda grave lacuna: il metodo che si intende perseguire per costruire la futura Unione. Si afferma: ‘Vogliamo che l’Unione sia grande sulle grandi questioni e piccola sulle piccole. Promuoveremo un processo decisionale democratico, efficace e trasparente, e risultati migliori’. La vaghezza di questa espressione significa che i 27 intendono discutere che fare tra di loro, nel Consiglio europeo, dimenticandosi che 27 punti di vista differenti, se ognuno dei 27 ha un diritto di veto, non potranno che condurre verso una Europe à la carte, in cui gruppi di paesi differenti si accorderanno per fare qualche cosa insieme, ma senza una visione condivisa con gli altri gruppi. Un nucleo duro non è necessariamente un nucleo federale. La sciagurata prospettiva di un cherry picking europeo può, tuttavia, essere evitata se si prende alla lettera l’impegno per un ‘processo democratico’. Ebbene, in democrazia è noto a tutti cosa sia un metodo democratico per fondare o per riformare le istituzioni: è il metodo costituente. L’art. 48 del Trattato di Lisbona regola una precisa procedura per la convocazione di una nuova Convenzione europea. Il Parlamento europeo ha già approvato una serie di proposte che meritano di essere prese in considerazione. Solo un’assemblea composta dai rappresentanti del popolo europeo, delle istituzioni europee e dei governi nazionali può innescare un vero dibattito nell’opinione pubblica sul futuro dell’Unione, associando ai lavori della Convenzione le associazioni di cittadini e tutte le personalità che possono dare un fattivo contributo. I nodi da sciogliere sono complessi. Si pensi solo alla creazione di un’unione fiscale, sulla quale divergono ancora fortemente i punti di vista nazionali, la creazione degli organi per la sicurezza e la difesa europea e infine la creazione di un governo democratico europeo.

Il 25 marzo, il Presidente Mattarella ha affermato che dopo la Dichiarazione di Roma si deve aprire un processo costituente. Si tratta di un saggio consiglio, che non deve essere ignorato. Solo in questo modo si potrà superare la contraddizione che si è manifestata a Roma tra i cittadini europei in piazza e i capi di governo che li ignorano. Tuttavia, la via della saggezza non è facile da accettare da chi è arroccato al passato e alla visione nazionalistica dell’Europa. Non sono i nazional-populisti che contestano l’Europa il pericolo maggiore. E’ il nazionalismo dei partiti e dei governi che si cela dietro la facile dottrina dei piccoli passi e dei ‘tempi non ancora maturi’ a trascinare l’Unione europea verso il baratro.

Autore
Guido Montani
Author: Guido MontaniWebsite: https://sites.google.com/site/guidomontani23/
Bio
Guido Montani insegna International Political Economy nell’Università di Pavia. E’ stato Segretario Generale e Presidente del Movimento Federalista Europeo. E’ Membro Onorario della Unione Europea dei Federalisti (UEF). Ha fondato nel 1987, con un gruppo di amici, l’Istituto di Studi Federalisti Altiero Spinelli, di cui è stato Direttore. Tra le sue pubblicazioni: L’economia politica e il mercato mondiale, Laterza, 1996; Ecologia e Federalismo, Istituto Spinelli, Ventotene, 2004; L’economia politica dell’integrazione europea, UTET, 2008; con R. Fiorentini, The New Global Political Economy. From Crisis to Supranational Integration, Edward Elgar, 2012; con R. Fiorentini, The European Union and Supranational Political Economy, Routledge, 2015; From National to Supranational: A Paradigm Shift in Political Economy" in Iglesias-Rodrieguez P, Triandafyllidou A. and Gropas R. (eds), After the Financial Crisis. Shifting Legal, Economic and Political Paradigms, London, Palgrave, 2016.
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